CENNI CRITICI
La ricerca di un volto
Nel dittico di Roberta Dallara torna la coppia: un interno vuoto, un
divano e una poltrona, altri segni di presenza appena scomparsa, o da secoli.
Il vuoto è animato da oggetti e citazioni: un libro, un guanto, una calza,
appunti che raccontano l’assenza. L’umano è altrove, restano solo tracce,
impronte, indizi.
Beatrice Buscaroli
(catalogo “Omaggio a Teresa Gamba
Guiccioli”)
Roberta Dallara focalizza la propria attenzione su frammenti di interni disabitati, pervasi tuttavia dalla presenza di sè, palpabile, avvertibile.
Indizi minimali disseminati lungo l'iter narrativo: una maglietta stesa ad asciugare sul balcone, il pizzo sul sedile della seggiola, lasciano intendere il gioco sottile dell'autrice. Proprio l'assenza conclamata della figura femminile ne evoca la presenza, abbattendo in tal modo il muro pretestuoso innalzato tra realismo e astrazione.
Carlo Micheli
8 donne 8 , Figurabilia
Via, via, via disse l'uccello:
il genere umano non può sopportare troppa realtà.
[T.S. Eliot “Quattro Quartetti”]
Non so se Roberta Dallara sia d’accordo con il grande poeta.
E’ vero: nella sua tela c’è tutto il grave del vivere, donne sorprese nelle loro stanze in dolente
riposo, in accorata preghiera, nello sguardo che si protende alla finestra, oltre il punto di fuga
dei tetti.
Chiavi, bollitori come “oggetti di scena” e – icone dei nuovi Dei – cartelloni di film che
assistono dai muri.
Si, questo mondo, questa realtà – anche se Monica e Cinzia sorridono alla festa – non è
sopportabile “in sé”.
Proprio qui, sull’”in sè” che Roberta lancia – timida, spavalda – il vivo colore della sfida.
Oltre il chiuso delle stanze e delle apparenze, oltre il viluppo dei pensieri, la realtà è
misteriosa promessa.
Ci sarà del vino nuovo anche per una vecchia, ancora una volta la terra offrirà la perfezione
della cipolla e delle rose.
Roberta vince qui: nel suo dipingere non c’è né graziosa maniera né cortese consolazione,
brilla solo lo sguardo che, proprio perché guarda, capisce.
Che la realtà si può sopportare perché – misteriosamente, ostinatamente – porta.
Indizi minimali disseminati lungo l'iter narrativo: una maglietta stesa ad asciugare sul balcone, il pizzo sul sedile della seggiola, lasciano intendere il gioco sottile dell'autrice. Proprio l'assenza conclamata della figura femminile ne evoca la presenza, abbattendo in tal modo il muro pretestuoso innalzato tra realismo e astrazione.
Carlo Micheli
8 donne 8 , Figurabilia
Via, via, via disse l'uccello:
il genere umano non può sopportare troppa realtà.
[T.S. Eliot “Quattro Quartetti”]
Non so se Roberta Dallara sia d’accordo con il grande poeta.
E’ vero: nella sua tela c’è tutto il grave del vivere, donne sorprese nelle loro stanze in dolente
riposo, in accorata preghiera, nello sguardo che si protende alla finestra, oltre il punto di fuga
dei tetti.
Chiavi, bollitori come “oggetti di scena” e – icone dei nuovi Dei – cartelloni di film che
assistono dai muri.
Si, questo mondo, questa realtà – anche se Monica e Cinzia sorridono alla festa – non è
sopportabile “in sé”.
Proprio qui, sull’”in sè” che Roberta lancia – timida, spavalda – il vivo colore della sfida.
Oltre il chiuso delle stanze e delle apparenze, oltre il viluppo dei pensieri, la realtà è
misteriosa promessa.
Ci sarà del vino nuovo anche per una vecchia, ancora una volta la terra offrirà la perfezione
della cipolla e delle rose.
Roberta vince qui: nel suo dipingere non c’è né graziosa maniera né cortese consolazione,
brilla solo lo sguardo che, proprio perché guarda, capisce.
Che la realtà si può sopportare perché – misteriosamente, ostinatamente – porta.
Stefano Del Magno
LA TENEREZZA DELLE COSE
Della
pittura di Roberta Dallara colpisce soprattutto la tenerezza. Lo sguardo pieno
di tenerezza verso il reale. La luce bacia il tappeto blu. Gli scalini brillano
illuminati, finalmente scoperti, la luce della finestra accarezza il pavimento.
Le
nature morte di Roberta sono vive: la tovaglia a quadretti bianchi e rossi, la
tazza con le uova, sembrano pulsare, risplendono di vita. Le cose sono buone, e
belle. Questa visione non è scontata nella pittura contemporanea, che si presta all’insinuazione metafisica che le
cose esistano soltanto come noi le percepiamo, o che non esistano del tutto
(G. K. Chesterton). E quando le cose ci sono, la realtà rappresentata è brutale
nella sua oggettività. Molta pittura, realista o iperrealista, si prefigge di
sottolineare ciò che è più inquietante, grottesco, deforme o deformato. Oppure
rappresenta il dato della realtà appiattito sul suo aspetto materiale, come se
avesse una sola dimensione. Come se la realtà non avesse consistenza, storia,
destino.
Invece
per Roberta anche il pesce crudo (che ha i toni del grigio e del blu, appunto
della crudezza,) è già quasi caldo, è pronto sullo strofinaccio da cucinare, è
buono da mangiare, è giusto. Suscitando il pensiero che nella realtà ci sia una
giustizia, e lo sguardo di Roberta riesca a coglierlo.
Nei
suoi ritratti di donne emerge un tema fondamentale: l’attesa. Nel ritratto che
si intitola appunto L’attesa il
tormento della donna è detto con intensità e rispetto, grazia. Nei suoi ritratti
Roberta è delicata e profonda. Sembra immaginare della donna tanti aspetti,
intimi e segreti, e non li rivela. Ci svela solo un punto, un nodo
fondamentale: il loro sguardo carico di nostalgia. La donna quasi sempre ha lo
sguardo rivolto alla finestra, o alla porta, o all’orologio. Qualcosa deve
succedere, deve accadere. Le donne ritratte da Roberta sono concentrate,
riposano, ma non sono veramente rilassate: non sono mai tranquille, aspettano
la vita che può ricominciare, ricomincia, burrascosa, l’attimo dopo.
Una
donna si sta truccando allo specchio, si sta preparando, forse è sera, per una
cena, una festa, e la sé stessa riflessa nello specchio la guarda, sospendendo
il tempo, la guarda con una domanda, che potrebbe essere: chi sei?
Anch’io
mi chiedo chi sono queste donne, le loro storie, da Cabirie o da Angeliche. In
ogni volto, in ogni attimo, la somma dei significati è infinita.
Guardando
i ritratti di Roberta vengono in mente i numerosi ritratti di donne di Edward
Hopper (che in genere ritraeva sua moglie). Donne sole che guardano dalle
finestre, e luce. E, forse, basta. Hopper è sicuramente un maestro per Roberta
(ricordo con che entusiasmo ammirava le sue opere esposte a Milano a Palazzo
reale nel 2009-2010). Hopper è un genio, che non mi consola.
Invece
Roberta mi consola, perché mi fa vedere che c’è tutto in ogni cosa: in un pezzo
di tovaglia e in una cipolla a metà. Sono grata a Roberta perché mi fa
commuovere della brillantezza curva delle tazze, e mi fa pensare che la realtà
sia buona, e valga la pena chinarsi a raccogliere l’uva per il vino nuovo come
faceva, con mani meravigliosamente rugose e antiche, sua nonna.
Marina Sangiorgi
QUID
EST LUX?
Che domanda
coraggiosa! Che audacia sfidare così l’animo dello spettatore, di colui che
adopera gli occhi per fare entrare la realtà nel proprio intimo, per
com-prenderla.
Questo e’ uno
degli aspetti piu’ belli dell’arte, in tutte le sue forme: pungolare il cuore
dell’uomo perchè non si accomodi una volta per tutte nel gia’ saputo ma si
ridesti di fronte ad ogni manifestazione del reale che accade. Sulla scorta di
questa saggia provocazione, ognuno di coloro che si troverà a confrontarsi con i
quadri qui presentati, troverà una propria risposta personale.
Solo chi ha
fatto esperienza nella carne della risposta possibile a questa domanda, puo’
osare proporla.
Ma io non voglio
raccontare l’esperienza di luce di Roberta Dallara, di cui meglio di me sanno
parlare i suoi quadri; bensì vorrei dire qui, in poche parole, della mia
esperienza di luce nei suoi lavori e siccome i quadri sono un atto creativo,
non posso evitare di confrontarmi con l’atto creativo per eccellenza, quello
riferito nella Genesi: dopo la terra ed il cielo, fu fatta la luce.
Senza luce il
creato sarebbe restato materia non visibile.
Così nei lavori
della nostra artista è la luce che fa nascere le cose: qualcosa che viene da
fuori ed appoggiandosi sul soggetto o sulla scena, rivela ai suoi occhi ciò che
poi rappresenta nei suoi quadri, ne diventa la sostanza.
Si tratta, però,
di un’accensione che non avviene “per aggiunta”, ma come per “vuotezza”.
La tecnica della
matita su tela gessata mi ha confermato con evidenza tale osservazione: è lo
spazio che resta bianco, non riempito di colore, che fa emergere la forma
intorno a sé.
La luce di
Roberta non è qualcosa che si aggiunge alla materia rappresentata, ma è nello
spazio lasciato bianco, quello che sembrerebbe un “non colore” e che invece è
l’amalgama di tutti i colori dell’arcobaleno.
La luce emerge
dallo spazio bianco, lasciato apparentemente vuoto di colore dalla mano
dell’artista, mentre invece è la totalità dei colori come significato ultimo
del dipinto: senza quel bianco non ci sarebbe forma, non ci sarebbe contenuto,
né senso.
In questo modo
nei quadri di Roberta ri-nasce la materia della realtà che lei rappresenta.
Il bianco,
spazio vuoto, non come assenza, ma come la totalità dei colori che non si
vedono, è un po’ come il silenzio: il luogo dove si fa spazio alla voce di un
Altro.
La luce, allora,
come elemento rivelatore del significato misterioso che ogni cosa porta in sé,
come esperienza della verità profonda delle cose, della realtà, talmente
profonda e potente che, in certi casi, sembra quasi prevaricare su tutto, fino
a bruciare il visibile per rimanere solo lei, ma sempre come qualcosa che c’è.
Dunque luce come
vittoria della verità, come Presenza che illumina altre presenze, come
significato delle cose.
È un dipingere
rivelativo, quello di Roberta; un dipingere acceso, vivo di uno sguardo a sua
volta luminoso e illuminante. Come i suoi occhi.
Silvia
Fornasari